Le cose che impariamo con passione, non le dimenticheremo mai.

 

 


 

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La Batteria Le Origini e La Sua Evoluzione

 

 Tutto tornerà da dove è incominciato: un uomo che percuote un tamburo”. Così diceva Dizzy Gillespie, il celebre trombettista jazz, a proposito delle nuove direzioni della musica afroamericana. Che la percussione sia l’elemen­to portante della musica nata a New Orleans è ben noto a tutti e sembra che, più in generale, anche il più disattento e superficiale consumatore di suoni abbia ormai realizzato da tempo che viviamo in un secolo nel quale la percussione assurge a ruoli determinanti, e addirittura solistici, in quasi tutti i generi musicali.

Dopo essere stato sepolto dalla concezione melodico-armonica dell’Ottocento europeo nelle oscure retrovie delle compagini orchestrali, in questo secolo, con la massima affermazione di musiche e di culture in cui l’instrumentario percussivo recita il ruolo di primo attore, questo elemento ritmico e vitalistico è ritornato finalmente ai fasti e agli splendori che le grandi civiltà extraeu­ropee presenti e passate gli hanno sempre dedicato. E non solo l’elemento ritmico fa spicco nel variegato universo di questi oggetti sonori: il colore strumentale, il timbro particolare della percussione hanno rivitalizzato e ridipinto i grigi fondali espressivi di molte forme di musica. 

La percussione ha colto in un attimo solo un successo culturale e quindi commerciale negatole fin dalla nascita del sistema musicale temperato. Ma, alle spalle di questo rinato amore per gli oggetti più semplici della creatività sonora, stanno secoli di quella cultura eurocentrica che ha limitato, deriso o tutt’al più tollerato in un impiego di secondo piano l’universo percussivo. Da millenni intanto, ignorata dall’Europa colta, l’ottanta per cento dell’espressione musicale del nostro pianeta faceva dei tamburi, dei gong e di altri oggetti la propria voce, erigendo capolavori artistici di durata infinita. 

Solo con la distruttiva colonizzazione europea prima, e quindi con il jazz, geniale espressione musicale nata dal matrimonio americano tra Europa e Africa, la percussione, nelle sue forme più semplici, appare al pubblico del vecchio continente. Sarà compito proprio dell’ensemble di strumenti a percussione creato dall’estro dei musicisti del jazz, popolarizzare e avviluppare tentacolarmente i consumatori di musica e la musica stessa. 

Denominato “drum set” (insieme di tamburi) e più riduttivamente, in italiano, “batteria”, questo insieme di strumenti a percussione ha caratterizzato le espressioni musicali più varie, dai geniali spunti artistici del jazz e della musica di ricerca fino ai banali ma funzionali moduli sonori della musica di consumo, di intrattenimento e da ballo. Chiaramente la sua nascita è stata influenzata, senza ombra di dubbio, dalla percussione africana; dall’Africa vennero deportati negli Stati Uniti gli schiavi che avrebbero dato vita, in seguito, all’incredibile fenomeno musicale denominato jazz.

La costa occidentale del continente nero, indicata anche come “area dei tamburi” da molti musicologi, è probabilmente il punto focale dell’influenza su quello che sarà in seguito il jazz drumming. Questa vasta porzione d’Africa comprende, ai giorni nostri, l’Angola, il Congo, il Camerun e la Nigeria, il Dahomey, il Togo e il Ghana. Su una superficie così estesa la tecnica percussiva e i tipi di tamburi variano da tribù a tribù e addirittura da villaggio a villaggio, anche se ovunque vi è una prevalenza di linguaggi poliritmici e polimetrici. 

Nella poliritmia due o più tamburi suonano ritmi diversi sulla stessa pulsazione di base. Una figura ritmica può essere basata su una divisione binaria ma, semplificando il discorso, il battere coincide, sia pure su periodi lunghi; scrivendoli nella notazione occidentale, i ritmi sarebbero facilmente inquadrabili nella divisione di un medesimo tempo. 

La polimetria, invece, di cui sono maestre le tribù degli Ewe e degli Akan, originarie del Ghana, consiste nella sovrapposizione indipendente di sei o sette metri distinti, e il cosiddetto “battere” dipende esclusivamente dalla volontà di uno dei suonatori.

In uno studio sulla tecnica percussionistica degli Ewe, è stato riscontrato che una eventuale trascrizione in notazione tradizionale occidentale delle loro polimetrie metterebbe in grossi guai un’intera sezione dei migliori percussionisti e batteristi della nostra musica. Ogni tamburo, campana o sonaglio, addirittura ogni battito di mani, ha il proprio metro: tutti questi metri, trascritti su una partitura, non potrebbero essere inquadrati verticalmente in un sistema di battute.

Ma nella pratica la percussione degli Ewe non è così complicata come potrebbe sembrare dalla trascrizione su un foglio musicale.

Come per molti altri casi artistici, ridurre a una serie di simboli una materia così elastica e pulsante come la musica non fa altro che complicare le cose. In questo caso il principio è semplice: ogni brano basa la sua struttura sul fatto che ogni suonatore mantenga scrupolosamente il suo metro e la sua figura ritmica. 

L’abilità, negata alla maggioranza degli occidentali, di esprimersi ritmicamente con questa sicurezza e libertà è la logica conseguenza dell’essere nati e cresciuti in una cultura che enfatizza l’aspetto ritmico della musica. E noto che molte volte in questi gruppi strumentali la maggior parte dei suonatori sono dilettanti, a volte addirittura bambini, anche se naturalmente la direzione dell’esecuzione e le parti solistiche sono affidate a uno o più “maestri” percussionisti.

Proprio in questi master drummers  dobbiamo individuare gli antenati spirituali dei batteristi del jazz. Fin da quando per il batterista è diventata una necessità acquisire un’indipendenza per esprimere da solo più ritmi contem­poraneamente su strumenti diversi, si può dire che la sua arte percussiva ha tratto ispirazione gestuale dai danzatori solisti dell’Africa occidentale. Se infatti il percussionista africano si unisce ad altri per esprimere una comples­sità ritmica, il danzatore, che si muove al suono di questo coacervo di oggetti percossi , deve muovere le varie parti del corpo contemporaneamente e indipendentemente, ciascuna al ritmo dei vari schemi esistenti all’interno dell’esecuzione musicale.

L’odierno batterista quindi richiama alla mente non soltanto l’aspetto musi­cale del ritmo africano, ma anche quello gestuale: volendo spingere la fantasia, azzardando una suggestione ulteriore, possiamo anche ritrovare nell’espressività del batterista un preciso riferimento alla cultura del tamburo parlante, vero e proprio mezzo di comunicazione in Africa.

Tribù quali gli Yoruba e gli Ashanti , infatti, usano ancora oggi tamburi ad altezza variabile, con i quali trasmettono messaggi a distanza, dando ad ogni nota un senso sillabico.

È proprio in questa capacità sottile dell’africano di comunicare attraverso i suoi tamburi che si devono ricercare le motivazioni pratiche della promulga­zione di molte leggi negli Stati Uniti e in molti altri stati americani colonizzati, che proibivano agli schiavi la costruzione e l’uso di tamburi. Non a caso nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, proprio i tamburi attizzarono i fuochi della rivolta degli schiavi in Virginia e in Carolina.

Nonostante il dilagare della repressione, l’arte primaria dell’espressività africana, la percussione, non fu mai abbandonata nella Louisiana francese, più tardi americana, a New Orleans, a New York e nel New England, africani di recente deportazione e quindi i loro discendenti, sia schiavi sia liberi, continuarono a suonare tamburi da loro costruiti sui ricordi dei modelli africani.

 


 

New Orleans e La Nascita Della Batteria

 

 

 

New Orleans e Congo Square: due nomi fondamentali non solo per la storia del jazz ma anche per la nascita della batteria. Infatti nel 1803 nella città deI delta del Mississipi il forte di San Ferdinando, eretto dagli spagnoli nel centro della città, fu demolito con l’idea di allontanare la febbre gialla che si pensava fosse causata dall’acqua stagnante dei fossati e dagli insetti e animali che li popolavano, oltre che dal sudiciume dei bastioni. In breve tempo, nello spazio così ottenuto, sorse un parco che fu prima sede di manifestazioni bandistiche e di circhi equestri e in seguito parco pubblico aperto allo svago domenicale. Il suo nome era Congo Square.

Per gli schiavi neri della città, e in seguito per il proletariato libero di colore, il parco divenne luogo di incontri e unico posto in cui si potevano ricreare le atmosfere festose di una cultura che ormai andava perdendosi, cantando e suonando in piena libertà.

Gli strumenti erano di fattura artigianale e richiamavano alla memoria gli antichi fasti della percussione africana, le bambulas, tamburi fatti con barili e pelli di vacca, la washboard, normale asse da lavare sfregata ritmicamente, le claves, che, percosse tra loro, erano il sostegno ritmico per queste celebrazio­ni dionisiache in cui riti pagani come il voodoo si mescolavano a misticismi della nuova religione dominante, il cattolicesimo.

Fin da dopo la guerra di secessione americana, gli afroamericani avevano potuto acquistare i due fondamentali strumenti a percussione della tradizio­ne europea: il tamburo rullante e la grancassa; ancora lontana comunque restava l’idea di organizzare in un unico set questi strumenti e affidare a un unico esecutore la loro gestione. 

Tra gli strumenti che più continuavano ad essere usati dai neri, sia per il loro significato magico, sia per la economicità della loro costruzione, si possono considerare i big drums (tamburi di legno), tronchi scavati su cui erano modellate due lamelle di differente intonazione, dal suono penetrante. Poco più a nord, già alle ultime propaggini della Louisiana, nel Mississippi e così pure nell’Alabama e nella Georgia, questi strumenti venivano impiegati sia nella musica da ballo che in quella religiosa, all’interno delle comunità di colore.

Il drumming africano comunque non influenzava solo le tecniche dei percussionisti delle feste di Congo Square, ma anche quelle dei batteristi delle rozze orchestrine nelle comunità rurali: su elementari armonizzazioni di stampo europeo, si inseriva sempre un elemento poliritmico e, qualche volta, all’api­ce dell’eccitazione collettiva, un elemento polimetrico. Comunque è ormai assodato che la tradizione percussiva fu sentita e recepita più a lungo a New Orleans.

Nel 1895 il trombettista Buddy Bolden suonò il primo “jazz”. 

Questa affermazione, opinabile e arbitraria, è comunque un punto di riferimento che sta ad indicare l’inizio di un certo tipo di commistione tra i ritmi di Congo Square, i canti rurali delle piantagioni e l’impiego a tempo pieno degli strumenti della banda europea. Siamo comunque ancora in presenza di sezioni ritmiche in cui gli strumenti hanno una funzione simile a quella delle bande militari, anche se invece di scandire un preciso ritmo memorizzato i due suonatori, di tamburo rullante e di grancassa, erano soliti improvvisare figure sullo stesso metro.

Baby Doods, “aveva una maniera di scandire il tempo africano... poteva trascinare un’intera orchestra solamente con la grancassa”). E qui iniziano i pareri discordi su quanta di questa africanità si possa ritrovare nel ritmo batteristico del jazz.

Il concetto di swing (letteralmente “dondolare”) infatti, è esclusivamente appannaggio della musica afroamerica. Dal momento che alcuni vecchi suonatori di New Orleans, tra cui il banjoista Danny Baker, testimoniarono più volte che le bande marcianti per le strade della Crescent City alla fine dell’Ottocento suonavano già con un certo swing e con un notevole impiego delle sincopi. Nel momento in cui il musicista della banda decide di suonare anche nel cabaret e diventa unico esecutore su entrambi gli strumenti, il tamburo rullante e la grancassa, manovrata da un rudimentale pedale, nascerà il batterista e quindi la batteria con una sua tecnica, una sua espressività e una sua inequivocabile personalità.

 


 

La Batteria E L’improvvisazione

 

 

 

 

 

Non si può prescindere, parlando della batteria, da quella che è stata la maggior componente della sua estroversa personalità: l’improvvisazione. Molto prima di giungere ad una codificazione ritmica, sui parametri sperimentati della notazione musicale europea, la batteria si esprime già in maniera compiuta: fondamentale nel batterista era il senso della variazione della scansione. A ben vedere, comunque, una certa parte della tecnica percussiva di stretta derivazione europea si era aperta sul finire dell’Ottocento a tecniche d’improvvisazione. 

Infatti, accanto ai rutilanti ritmi di Congo Square esiste­vano anche batteristi di orchestre da ballo, per lo più esecutori di valzer, che invece di suonare il secondo quarto del tempo ternario come scritto sulla partitura lo acceleravano leggermente e, variando il terzo, riuscivano a dare un certo “swing” all’esecuzione. 

Lo testimonia il celebre William Ludwig Senior, ottimo percussionista dell’epoca e fondatore dell’omonima fabbrica di strumenti a percussione. E aggiunge ancora: “Tra il 1890 e il 1910 i batteristi nella musica da ballo incominciarono a variare le parti originaria­mente loro assegnate, nello sforzo di esprimersi liberamente: invece di suona­re le 32 misure abituali del ritornello di una canzone, i batteristi più avanzati cercavano di suddividere in maniera personale e originale il ritmo, seguendo lo sviluppo della melodia”.

Lo stesso accadeva con quella forma musicale chiamata ragtime. Compagno  d’avventura del jazz nella storia della musica nordamericana, il ragtime aveva la caratteristica di affidarsi a una scrittura ben definita ma, anche qui, i batteristi più giovani variavano il ritmo, tanto da essere catalogati sdegnosa­mente, dai tradizionalisti del genere, come fakers  (falsificatori, contraffattori). 

Comunque la storia meravigliosa del drum set era già incominciata e nessun vecchio suonatore avrebbe più potuto arrestarla; è anche vero che i batteristi sono sempre stati guardati con sufficienza dai colleghi del mondo classico, ma è altrettanto vero che questo è capitato più spesso in paesi feudali e conservatori (musicalmente parlando), come, guarda caso, l’Italia.

Oggi simili distinzioni di classe sembrano lentamente sparire; ricordiamoci comunque di quale e quanto profonda fosse la stima reciproca tra personaggi come Gene Krupa e Sangord Moeller o Morris Goldemberg e Cozy Cole.


 

Lo Sviluppo E Le Innovazioni Tecniche Nel Drum Set

 

 

 

 

Dal fatale momento in cui un solo musicista si sedette davanti a un tamburo rullante e a una grancassa a pedale corredata da qualche accessorio percussivo­ come un piatto o un blocco di legno, molta acqua è passata sotto i ponti; e non solo sotto i ponti della tecnica strumentale, ma anche sotto quelli dell’evoluzione fisica dello strumento, dapprima rinato e riplasmato da ogni singolo esecutore e quindi forgiato progressivamente da una manifattura industriale alla costante ricerca di nuove soluzioni meccaniche e sonore.

Si può dire che ogni decennio della sua pur breve vita di ottantenne sia stato per il drum set foriero di enormi cambiamenti. Il suo apice lo raggiungerà, nel 1956, quando le sue membrane perderanno per sempre la viva connotazione della pelle animale per piegarsi a un nuovo, eterno materiale dalla sonorità fredda ma precisa e funzionale: la plastica.

Il cuore pulsante dell’intero arsenale percussivo erano il rullante e la grancassa a cui ciascun esecutore aggiungeva liberamente altri oggetti da percuotere. Sappiamo per esempio che il celebre Baby Dodds era così equipaggiato: una grancassa, un tamburo rullante con la cordiera in budello di capra angora, due piatti turchi originali, un pedale con cui manovrare la cassa, due blocchi di legno, quattro campanacci, una raganella e naturalmente bacchette, spazzole e mazze.

A proposito di questi ultimi accessori percussivi appena citati, bisogna ricordare che la comparsa delle spazzole (un insieme di fili di ferro fissati a un manico) avviene solo in un momento successivo alla nascita del drum set, anche se la percussione africana conosceva da tempo immemorabile questo tipo di battenti, ovviamente in fibra naturale, resuscitati forse dalla memoria di qualche batterista jazz afroamericano. Inoltre le mazze con la testa in feltro sono evidentemente mutuate dalla musica sinfonica dove servivano, e servono tuttora, alla percussione dei timpani.

Contaminazioni di vario tipo, sia culturale sia commerciale, davano al batterista delle bizzarre possibilità di assem­blaggio del suo strumento. Caratteristici erano, per esempio, i piatti cinesi dal suono penetrante e gracidante e i tamburi, sempre di questo paese, che grazie al sistema di fissaggio delle pelli imbullettate al fuso con borchie e quindi laccate, mantenevano l’intonazione costante in un ambito accettabile.

Negli anni trenta la grancassa, in seguito denominata semplicemente cassa, tende a ridurre le sue dimensioni, mentre tamburi e piatti aumentano e si ingrandiscono; è un’esigenza, questa, dettata dal crescere della compagine orchestrale. La comparsa di un altro pedale che manovra due piatti apre nuove prospettive sonore moltiplicando le possibilità espressive dello strumento. 

Questi sono anche gli anni della grande industrializzazione: fabbriche di strumenti nascono un po’ ovunque; senz’altro va ricordata la Ludwig di Chicago, nata per volontà dell’omonimo percussionista, e l’inglese Premier, creata invece da una famiglia di emigrati italiani Anche i piatti, in questi anni, si affermano clamorosamente: merito dell’in­tenso lavoro e della proficua collaborazione con i grandi batteristi dello swing di Avedis Zildjian, figlio del fondatore dell’omonima ditta, che, emi­grato dalla Turchia negli Stati Uniti, impianta su basi industriali la lavorazio­ne del piatto musicale. 

Il tamburo rullante si circonda quindi di altri tom tom; Gene Krupa per primo ne intuisce le spettacolari possibilità, fornendo quindi il destro all’industria per commercializzare definitivamente modelli di batte­ria completi di questi accessori, da allora in poi ritenuti indispensabili. A una riduzione degli organici orchestrali corrisponde una riduzione delle componenti del drum set: è Papa Jo Jones, batterista di Count Basie, uno tra i primi a limitare il numero dei tom tom a due, limitando a due anche i piatti. 

Be-bop e nuove tecniche di scansione sul piatto faranno il resto, tanto che. negli anni cinquanta, molti batteristi riscoprono l’essenzialità di un set composto da cassa, piatti a pedale, rullante e un solo piatto. L’industria, però, è in agguato. Diffusione di massa della musica di consumo, affermazione della spettacolarità del rock, crescita qualitativa del ruolo del batterista fanno scattare, dagli anni sessanta in poi, le leve della moltiplicazione all’infinito di piatti, tamburi e accessori. 

Se negli anni dell’incerta adolescenza dello strumento non era raro vedere batteristi circondati da una pletora di percussioni, timpani e campane tubulari incluse, è pur vero che la tecnica esecutiva era per lo più imitata al tamburo rullante e ai pedali, essendo presenti, gli altri strumenti, più per motivi spettacolari e effettistici che non per un reale bisogno di estensione del vocabolario espressivo. 

Negli anni settanta invece l’ampliamento del set ha coinciso con l’invenzione di nuove tecniche esecutive che considerano ogni strumento con la stessa attenzione, assegnando ad ognuno precise funzioni ritmiche e timbriche. La pelle sintetica, ha condizionato non poco la tecnica batteristica: una maggiore risposta alla percussione, e quindi un diverso tipo di controllo del rimbalzo della bacchetta, ha fatto sì che molte fondamentali trovate tecniche fossero rivedute e corrette.

Ogni componente del drum set ha comunque una sua storia da raccontare, un viaggio iniziato in paesi lontani e concluso in compagnia di insospettabili vicini di lavoro.

 


 

Il Tamburo Rullante  

 

 

 

I primi tamburi rullanti erano “casse armoniche di banjo a cinque corde ; i ragazzi segavano via il manico di un vecchio banjo, lo appoggiavano su una sedia e lo percuotevano”, presumibilmente, con le corde ancora attaccate al ponticello per produrre il tipico ronzio del tamburo rullante.  

Probabilmente i musicisti appartenenti alle classi più indigenti erano soliti ingegnarsi con materiali di recupero ma, non dimentichiamolo, già a quell’epoca orchestre da ballo, impegnate in un repertorio di musica europea, suonavano equipaggiate di tutto punto con i loro strumenti in perfetto stato di manutenzione. Per altro, è pure probabile che il tamburo rullante entri nel novero degli strumenti percussivi del drum set direttamente dalla tradizione africana dove questo tipo di espediente, appoggiare a una pelle corde tese per provocare un ronzio, è ben conosciuto.

Riandando indietro nei secoli troviamo in Europa tamburi di questo tipo fin dal Medioevo. Nonostante le civiltà europee abbiano sentito influenze delle culture africane sin dall’antichità, solo con il Medioevo comincia ad essere usato costantemente questo strumento. 

La musica marziale è la principale responsabile della sua affermazione: il tamburo rullante viene segnalato, in fogge diverse, in quasi tutti i paesi del vecchio continente. Si è fatta una discreta confusione attorno ai nomi che designavano, in questo suo primo apparire, il tamburo in Europa: si pensa comunque, sostanzialmente, che la forma più comune in questa epoca fosse lo strumento chiamato tabor.

Fonti stori­che ci segnalano l’apparire di questi tamburi rullanti nelle orchestre di corte tra il 1200 e il 1300. Nell’anno 1332 fu fondata a Basilea, in Svizzera, la 

Associazione dei Maestri Tamburini e Pifferai; questa scuola divenne in breve la più avanzata espressione della tecnica strumentale del tamburo in Europa e, a sei secoli di distanza, insieme alla scuola scozzese e a quella accademica francese, resta ancora un momento determinante dell’evoluzione strumentale del tamburo rullante.

Il tamburo militare, quello che poi diventerà cuore pulsante dell’odierna batteria, appare all’incirca nel tredicesimo secolo, era sospeso al fianco del musicista sorretto da una bandoliera e suonato con due bacchette. Solo nel Cinquecento la cordiera verrà tesa sulla membrana inferiore dello strumento, come sugli odierni snare drums.

Alla legatura delle pelli attraverso cinghie si sostituisce solo in epoca molto recente (nel 1837) il sistema di tensione a vite. Le dimensioni dello strumento variano da modello a modello in una fantasmagoria di nomi e di forme; certo si è che il musicista jazz inizierà ad usare uno strumento dal fusto in legno o in ottone le cui pelli tese con un sistema a vite saranno di un diametro variabile tra i 35 e i 40 centimetri; l’altezza del fusto varierà da 22 a 37 centimetri, al massimo.

Dal suo primo apparire a oggi il tamburo rullante è mutato ancora incredibil­mente decine di volte: e non si è trattato di mere modifiche estetiche, bensì di apporti funzionali di nuove meccaniche che ne hanno fatto oggi uno strumen­to raffinato, flessibile ad ogni esigenza sonora del batterista. 

All’originale strumento di grossolana fattura fu ben presto sostituito un tamburo dal fusto ridimensionato, risonante, con un meccanismo che permetteva di staccare la cordiera dalla pelle inferiore e soprattutto di tenderla; una seconda innova­zione, apportata negli anni trenta, fu quella di separare il sistema di tensione delle due pelli in modo da permettere all’esecutore una infinità di combinazioni sonore. E ancora nuovi colori tonali furono aggiunti con la conversione della cordiera in fili di budello in quella in fili di acciaio; la pelle sintetica poi portò il rullante a vette timbriche mai raggiunte prima.

Il fusto può essere in legno, e la sonorità sarà allora più pastosa, in ferro laminato, dal timbro aspro, o in ottone, dal suono tipicamente militare; e ancora, in plastica, per un timbro cupo, in rame, per una totale eliminazione degli armonici, o costruito con tecniche miste di cui la più comune è quella del metallo rivestito all’interno in legno.

Mentre il diametro si è ormai assestato su una misura di 36 centimetri, il fusto può variare in altezza dall’acuto piccolo snare al grave e maestoso concerto o rock model, alto ben 18 centimetri. Le viti di tensione più numerose sono e meglio controllano l’intonazione dello strumento; si trovano oggi modelli di snare drum con ben dodici punti di tensione, mentre la norma ottimale è di dieci.

La cordiera è diventata un meccanismo di precisione: si va dalla semplice cordiera in fili di acciaio, movibile attraverso l’apposita leva, alla sofisticata cordiera con possibilità di regolazione per ogni singolo filo. Ultimamente sono state sperimentate cordiere. con una mistura di fili in acciaio, plastica e budella. 

Esistono anche rullanti con due cordiere, i quali, si impongono ancora per la loro caratteristica sonorità data dai due meccanismi posti a contatto con le due pelli, con regolazione distinta.

 


 

La Grancassa A Pedale

 

 

Altro elemento insostituibile della batteria, dalle sue origini ai giorni nostri, è quello strumento a percussione denominato originariamente grancassa e quindi, via via che le sue dimensioni variavano, più semplicemente cassa. In inglese, invece, è sempre opportunamente rimasta la denominazione di bass drum (tamburo basso), più funzionale all’uso assegnato a questo strumento. 

Nella tessitura timbrica della batteria, infatti, questo membranofono ricopre la funzione di supporto grave della gamma sonora. In ogni caso il nome di grancassa era ben giustificato, dal momento che alle origini del drum set proprio di un vero “tamburo maggiore” della banda si trattava.

Le sue dimensioni oscillavano tra un diametro di 75 e 60 centimetri, mentre il fusto, di solito in legno o in ottone, non superava l’altezza di 30 centimetri. 

Questi ingombranti oggetti sonori furono gli ultimi a vedere i sistemi di tensione delle pelli separate; il largo diametro e l’uso di secondaria impor­tanza marcare i quarti della battuta) non favorirono di certo una ricerca sul colore strumentale di questo tamburo. Ad inserire il bass drum nelle batterie usate per la registrazione. Fu il celebre Gene Krupa, come vedremo, ad avere per primo il privilegio di far sentire su disco lo swingante accompagnamento della sua cassa a pedale.

L’uso del contrabbasso nell’organico jazz portò a un ridimensionamento delle misure del fusto che, si assesta negli anni standardizzandosi tra i 35 e i 45 centimetri. Con lo swing i due strumenti venivano ad assumere nel contesto orchestrale la stessa funzione ritmica, anche se naturalmente il contrabbasso ne svolgeva anche una armonico-melodica; il ridimensionamento del fusto rendeva più distinguibile e asciutto il suono del bass drum.

Gli anni quaranta e la nuova tecnica batteristica che portava la cassa a una dimensione di contrappunto ritmico e non più di mero accompagnamento base, segnavano una profonda svolta nell’estetica e nella sonorità dello strumento. Il be-bop, elevando la cassa al rango degli altri componenti del drum set, ne faceva uno strumento dalla precisa sonorità, accordato e utilizzato per un’interpunzione sonora, accanto al rullante e ai tom tom, all’elemento portante del tempo, il ride cymbal.

La tendenza a rimpicciolire lo strumento si mosse allora al galoppo; immediatamente furono fabbricate casse del diametro di 50 centimetri (la profon­dità del fusto, assestatasi tra i 40 e i 45 centimetri, non era dovuta solo a ragioni di proporzione per una resa acustica ottimale, ma anche al fatto che sulla cassa trovavano supporto tom tom e piatti) e nel decennio successivo si arrivò all’odierna misura dei piccoli drum set di 45 centimetri di diametro.

Gli anni cinquanta vedono l’apparire di viti di regolazione della tensione delle membrane con una propria impugnatura a “T”, un utile accorgimento che permetteva allo strumentista di accordare la pelle velocemente, senza ricorrere all’apposita chiave; l’espediente è ancora in uso come ancora in uso sono i piedini retraibili che sostituirono negli anni cinquanta altri applicati allo strumento con morsetti. 

Attacchi di vario tipo sulla parte superiore servono tuttora a posizionare perfettamente almeno un piatto e due tom tom: un’innovazione tecnica, questa, che segnò, negli anni cinquanta, una evolu­zione della tecnica esecutiva. Solo dieci anni prima, infatti, i tom tom erano posti sul lato esterno dello strumento.

Il rock, con il suo incedere ritmico possente e iterato, ripropose la crescita incontrollata del bass drum; gli strumenti elettrici chiedevano maggiore potenza alla scansione di base e un suono più pieno e cupo. Dalla cassa di Ringo Starr, dal diametro di 56 centimetri, a quella di Carmine Appice dei Vanilla Fudge, dal diametro di 70 centimetri, per alcuni anni fu un continuo alternarsi di misure che alla fin fine hanno trovato un equilibrio compromes­so tra potenza sonora e trasportabilità, assestandosi sulle misure standard di 56 centimetri di diametro e 36 di profondità.


 

I Tom Tom

 

 

Con il termine onomatopeico di tom tom indichiamo una serie di tamburi che si rifanno per sonorità e per dimensioni sia ai tamburi della tradizione africana, sia a quelli della tradizione europea. 

Negli anni cinquanta invalse in Italia l’uso di chiamare il tom tom più piccolo muto, forse per contrapporlo al suono gracchiante del tamburo rullante, e si definì impropriamente timpano il tom tom più grave, per una sua improbabile parentela con l’omonimo strumento sinfonico che, ricordiamolo, oltre ad avere un’altezza determinata e variabile, ha anche una caldaia emisferica, che lo diversifica totalmente dal presunto cugino della batteria. 

Anche questi strumenti originariamente, nel drum set dei primi batteristi, avevano forme e funzioni lontanissime dalle attuali.

Il problema della tensione delle pelli non abbandonò i batteristi fino agli anni cinquanta: la pelle naturale tende infatti a risentire delle condizioni atmosferiche, tendendosi nei climi secchi e allentandosi nell’umidità. A questo pro­posito potremmo ricordare che l’uso, invalso per un certo periodo, di illuminare con lampadine poste all’interno dei fusti i tamburi delle batterie non era solo un curioso espediente di moda, ma una reale necessità: le lampadine, con il calore emanato, mantenevano le pelli in una costante tensione. 

Utile espediente questo soprattutto nei fumosi e umidi night club. Negli anni trenta quasi tutti i batteristi facevano già sfoggio di tom tom simili a quelli moderni; molto spesso il sistema di tensione delle pelli era unico, ma lentamente si affermò il sistema indipendente; questo permetteva al batterista di intonare liberamente le due membrane. 

Un solo tom tom montato sulla cassa e uno montato su piedini furono la norma, da Jo Jones in poi; solo certi musicisti, come Buddy Rich, iniziarono ad aumentare il numero dei tom tom con i piedini e in seguito di quelli sulla cassa.

Anche il rock nel suo primo apparire continuò a identificarsi nello schema strumentale ideato da Jo Jones: solo le misure dei fusti aumentarono leggermente, alla ricerca di un maggior volume sonoro. Anche tra i batteristi rock, e soprattutto fra quelli che suonavano con una normale orchestra da ballo, venivano guardati con sospetto i batteristi superaccessoriati. Oggi la norma è di disporre di due tom tom montati sulla cassa e di uno con i piedini.

Verso la fine degli anni settanta varie ditte hanno immesso sul mercato dello strumento musicale tom tom a una pelle sola in più diametri, chiamati solitamente concert tom tom o melodie tom tom, con chiaro riferimento all’uso nella musica classica e alla possibilità di intonarli con precisione e farne quindi un uso melodico. 

In effetti questi strumenti a una membrana presentano minori problemi alla intonazione e, grazie alla presenza di una sola pelle, possono essere tesi con precisione su una nota determinata. Tra i primi a adottare set di questo tipo ricordiamo il batterista dei Vanilla Fudge, Carmine 

Appice, Ginger Baker dei Cream. Il numero delle viti di regolazione è variabile a seconda della qualità dello strumento; comunque non sono mai presenti in numero minore di cinque. 

La maggior parte dei tom tom oggi in commercio monta speciali sordine interne al fusto: è questo un sistema per ridurre la risonanza delle pelli che però viene molte volte tralasciato a favore di sordine esterne e di speciali tecniche di smorzamento (spugna sulla pelle, nastro adesivo, speciali tampo­ni in gomma autoadesivi, ecc.).

 


 

Il Pedale Della Grancassa

 

 

 

Il meccanismo a pedale che permette di percuotere con il piede la cassa è indubbiamente non un accessorio, ma un elemento di vitale importanza del drum set e della sua tecnica. Lo potremmo infatti paragonare al sistema di percussione azionato dal tasto del martelletto sulla corda del pianoforte: per secoli i costruttori di questo nobile strumento, principe della tradizione europea, si sono ingegnati a trovare soluzioni tecniche che permettessero il ritorno veloce del martelletto allo stato di riposo dopo la percussione. 

Flessibilità e risposta alla percussione, possibilità di controllo dinamico sono per il pedale fattori essenziali che in questi ultimi anni i costruttori hanno cercato di migliorare per permettere al batterista un affinamento della tecnica percussiva con gli arti inferiori.

Benché nel jazz l’invenzione venga comune­mente attribuita a Dee Dee Chandler, leggendario batterista di New Orleans, dalla biografia di William Ludwig Senior apprendiamo che esistevano già in uso nei circhi strumenti a pedale adoperati nell’accompagnamento musicale. 

Ludwig afferma perentoriamente di essere stato il primo a portare il rudimentale accessorio percussivo del circo a un livello di dignità tecnica.

La tecnica di percussione del piede ha comunque un’importanza determinan­te al fine della scelta del pedale: se infatti si è soliti premere con l’intera pianta del piede sul pedale e sollecitarne il ritorno con il tallone, si dovranno senz’altro preferire i modelli in cui una barra di metallo unisce il battente alla piantana del pedale. 

Se invece la tecnica si baserà sull’uso della sola punta e affiderà il ritorno del battente alla meccanica di questo accessorio, i modelli con la cinghia o con una catena snodabile “da bicicletta” saranno i più congeniali. 

Resta sempre e comunque un fatto personale: tecniche del primo tipo potranno sposarsi agevolmente con pedali a cinghia e viceversa... sarà solo la sensibilità del batterista a “sentire” se la risposta del pedale lo soddisfa appieno.

I modelli più recenti hanno raggiunto una precisione di regolazione millimetrica: c’è la possibilità di controllare esattamente il ritorno del battente, l’angolazione dell’appoggio del piede in stato di riposo, l’altezza del punto di percussione, di adattare l’alloggio per il piede alle dimensioni del medesimo e così via: un vero gioiello di precisione meccanica che, non deve stupire, è diventato costoso quanto un tamburo di medie dimensioni. 

E’ difficile comunque trovare sul mercato, oggi, modelli di pedali professionali non soddi­sfacenti; con l’introduzione dei cuscinetti a sfera, infatti, si è contribuito in maniera determinante alla flessibilità di questo importante strumento per­cussivo.

La maggior parte dei pedali oggi in commercio vengono venduti con il battente in feltro duro in una forma cilindrica. Sono stati fatti molti esperimenti anche su questo particolare non trascurabile del pedale, per ottenerne la massima superficie battente possibile. 

Modelli con la testa quadrata, ottagonale, sferica, hanno invaso ultimamente il mercato; materiali di rivestimento quali cuoio, legno, fibre plastiche, sono stati oggetto di attenzione da parte di molti costruttori ed esecutori: ancora una volta gusto personale, tecnica e sensibilità aiuteranno a scegliere il suono desiderato.

 


 

I Piatti A Pedale Hi-Hat E I Supporti Metallici

 

Ultimi nati della famiglia strumentale del drum set i piatti a pedale, fin dal loro primo apparire, hanno conquistato un posto di rilievo tale da portarli spesso ad essere protagonisti dell’amalgama sonoro prodotto dalla batteria. L’accoppiata grancassa e piatti ha dominato la sezione strumentale percussiva da parecchi secoli. Anche le bande di New Orleans impiegavano piatti e grancassa e così pure facevano le orchestre impegnate nella musica da ballo. 

Chiedere comunque al batterista delle origini di assumersi immediatamente la responsabilità dei tre suoni (piatto, grancassa e tamburo rullante) era forse un po’ troppo: fu così che i piatti aspettarono una loro autonomia un po’ più a lungo.

Molti batteristi già alle origini del drum set usavano un curioso espediente per percuotere contemporaneamente piatto e grancassa. Sul perno del battente del pedale veniva fissata ad angolo retto una barra metallica che andava a colpire un piatto fissato parallelamente alla pelle sull’orlo del bass drum. Un meccanismo a vite permetteva di allontanare questa barra metallica dal piatto e avere così all’occorrenza solo il suono della grancassa.

Ovviamente il suono era sempre simultaneo. Proprio per la necessità di contrapporre al bass drum la squillante sonorità della coppia di piatti decollò l’idea di un meccanismo a pedale atto ad azionare due piatti turchi. 

Il primo passo fu a imitazione della percussione manuale dei piatti da banda: a un piatto fissato verticalmente a un supporto a pochi centimetri da terra veniva affiancato un altro piatto che andava a percuotere il primo grazie a un meccanismo a pedale comandato da una molla. 

Questo meccanismo instabile e ingombrante, però, fu ben presto sostituito dal pedale chiamato “low boy” cymbals, una versione primitiva del moderno hi-hat in cui i piatti erano posti orizzontalmente e si chiudevano come nel meccanismo odierno. E’ chiaro che l’unico effetto che se ne poteva ricavare era quello dato dalla chiusura e apertura tramite il pedale. 

Solo quando, negli anni trenta, il tubo del supporto fu alzato fino ad essere a portata di mano per l’esecutore, lo hi-hat acquistò la funzione primaria che oggi ricopre.

Conosciuto anche come charleston, per l’uso strettamente connesso a questo tipo di danza, il piatto a pedale diventa il punto focale dell’accompagnamento ritmico: inizialmente suonato semiaperto, quindi utilizzato chiuso e alla fine impiegato con una accorta alternanza di movimento tra piede e mani, diventa oggetto d’attenzione primaria per la maggior parte dei grandi batteristi.

Con l’avvento del rock, gli anni sessanta vedevano ancora in uso supporti hi-hat di struttura robusta ma esile; il tocco feroce dei batteristi rock, non paragonabile alla lieve ed elastica scansione dei jazzisti, rimise in discussione misure e attacchi, al punto tale che, nel volgere di pochi anni, fu aumentata la base, per avere maggiore stabilità, furono applicati allo hi-hat puntali che lo frenassero sotto la spinta eccessiva della pedalata beat e si applicarono al tubo, ovviamente regolabili in altezza, diversi tipi di fermo, che mantenessero i piatti nella posizione desiderata.

E’ chiaro che le molle, protagoniste del ritorno del piatto superiore verso l’alto, furono irrobustite e che si giunse alla determinazione di impiegare materiali resistenti, soprattutto metallici, nel punto di contatto tra asta interna e pedale.

Con l’aumento di peso dei piatti, si ricorse quindi a veri e propri tripodi, marchingegni addirittura impossibili da spostare con una sola mano. Un interessante e semplice meccanismo a vite permise, fin dagli anni cinquanta, di variare l’inclinazione del piatto inferiore in modo da ottenere un suono di impatto preciso, secco e veloce così necessario al jazz a partire dal be-bop in poi.

Con il progressivo incremento delle dimensioni dello hi-hat, aumentavano intanto anche quelle dei supporti dei piatti e dei tamburi. Un abbondare di viti, piedi, attacchi, ecc. 

Oggi il peso medio di un supporto per piatto è pari a quello di tutti gli accessori della batteria di dieci anni fa... il boom stand (uno stand in cui si inserisce orizzontalmente un’asta che permette di posizionare il piatto sopra i tom tom montati davanti al batterista) ha dato un decisivo apporto allo sviluppo muscolare del batterista alle prese sempre, non dimentichiamolo, con i problemi di trasporto.

Ormai in disuso i supporti dei piatti fissati alla cassa: ci sono tanti supporti quanti sono i piatti...

Il supporto del tamburo rullante è ancor oggi inclinabile, anche se la tecnica del rock accorda le sue preferenze al “matched grip” a mani pari e quindi il tamburo va posto in posizione perfetta­mente orizzontale: un sistema a vite o talvolta a molla assicura inesorabilmente lo snare drum al suo supporto che, mi sembra, è quasi diventato, oltre che normale supporto, anche zavorra contro la tempesta percussiva dell’ hard rock.

 


 

Le Pelli

 

 

La pelle sintetica ha sostituito dal 1957 le membrane ricavate dalla concia di pelli animali, soprattutto di vitello, capra e asino.

Ciò non ha solo profondamente modificato la sonorità della batteria, ma ha anche cambiato sostanzialmente la tecnica percussiva. Se infatti sulla pelle naturale, di scarsa risposta, la bacchetta doveva essere aiutata nel suo ritorno verso l’alto, sulla pelle sintetica, al contrario, deve essere attentamente controllata affinché non sfugga: certe acrobazie manuali sono impensabili da realizzare sui vecchi strumenti.

Fu un italiano, Remo Belli, buon batterista ma soprattutto ottimo uomo d’affari, a intuire per primo la possibilità di utilizzare fogli di speciale materiale plastico per produrre membrane da tamburo. La sua industria già nei primi anni di attività sfornava migliaia di pelli sintetiche. Quali i vantaggi e quali gli svantaggi?

I primi sopravvanzano senz’altro i secondi: maggior resistenza alla percussione, tenuta costante in qualsiasi tipo di clima e situazione ambientale, immediata risposta e facilità di montaggio, giocano a favore dell’impiego della membrana sintetica di contro allo svantaggio, di un suono artificiale e a volte troppo squillante.

Ormai comunque anche quest’ultimo particolare è stato ampiamente messo a punto: da fogli di plastica trasparenti, attraverso procedimenti di verniciatura e incollaggio, si sono ottenuti tanti e tali tipi di pelli da soddisfare tutte le esigenze di percussionisti e batteristi. A chiudere il ciclo è ora intervenuta una membrana sintetica, perfetta imitazione della pelle animale, con lo stesso caldo suono tanto rimpianto dai vecchi batteristi.

Un’innovazione fondamentale degli anni settanta è stata quella di applicare al centro della pelle un ulteriore strato di materiale sintetico, il blackspotche serve ad eliminare indesiderati armonici e ad incupire il suono; un risultato questo delle tecniche di registrazione della musica rock.

Esiste anche una speciale membrana sinte­tica pre-intonata: la membrana, cioè, suona di per sé ad una altezza determi­nata dal costruttore; il fusto quindi non serve più per tenderla ma solo per amplificarne il suono.

Abbastanza popolari le pelli sintetiche consistenti in due sottili membrane all’interno delle quali viene posta una sostanza oleosa: il coefficiente di smorzamento sonoro è tale da sfiorare l’inconsistenza timbrica.

 


 

I Piatti Musicali

 

 

 

I piatti musicali sono forse tra i più antichi strumenti a percussione che si conoscano. La loro storia è fatta di mille mutamenti,  e di mille usi. La maggior parte di questi strumenti in tutte le culture del mondo sono fabbricati per lo più in bronzo, un amalgama, cioè, di rame e di stagno (per i piatti, normalmente, otto parti di rame e due di stagno). 

Altri materiali quali l’ottone, il ferro e la porcellana, vengono usati in sostituzione del bronzo, nelle aree, ovviamente dove la manifattura di questo metallo non sia facilmente eseguibile.

Le lavorazioni più importanti dei piatti musicali nel mondo sono ubicate negli Stati Uniti, in Canada e in Svizzera e in Italia.

Il piatto musicale è oggi prodotto sul mercato mondiale da diverse manifattu­re che usano fondamentalmente due sistemi di fabbricazione di cui uno, il più artigianale ma anche il più interessante dal punto di vista della qualità sonora, è quello della fusione in bronzo, e l’altro è quello dello stampaggio dello strumento a caldo da fogli di metallo già lavorati industrialmente.

Appartengono alla prima categoria la mitica Zildjian americana, l’italiana UFIP, mentre alla seconda fanno capo ditte quali la svizzera Paiste.1a tedesca Meinel e la canadese Camber.

I ruoli che sono richiesti oggi allo strumento musicale chiamato cymbal nella musica jazz, rock e commerciale, sono:.

1. Innanzitutto una totale assenza alla percussione di armoniche determina­te in evidenza, in modo da permettere l’impiego in accompagnamento a qualsiasi tipo di strumento e in tutte le tonalità (è evidente che se il piatto desse una nota determinata come altri idiofoni in metallo - per esempio i gong - creerebbe insormontabili problemi di intonazione).

2. Uno spettro di frequenze sonore, da gravi ad acute, che diano un senso di “pieno” a chi ascolta, e consentano variazioni timbriche all’esecutore col percuotere nei diversi punti.

3. Una risonanza calibrata, tale da permettere l’identificazione della scansione ritmica nei tempi veloci e un alone sonoro in quelli lenti.

La dicitura che contraddistingue, su molti testi, i cymbal è quella di “piatti turchi”, giusto riconoscimento al popolo che per primo iniziò una produzio­ne regolare di questi strumenti e ne portò il livello qualitativo a una perfezio­ne tecnica sorprendente, diffondendoli dalla Turchia nel mondo.

Alla fine del secolo scorso, proprio uno di questi artigiani turchi, Avedis Zildjian, emigrato negli Stati Uniti, iniziò la produzione su scala industriale di questi strumenti, aiutato in ciò dalle fortune che in quel momento storico stavano godendo i piatti presso i musicisti di jazz, musica popolare e commerciale negli 

Stati Uniti. La tecnologia e la ricerca dell’aumento di produzione, tipica delle industrie americane, spinsero però questi “maestri piattai” a perdere ben presto di vista l’artigianalità del procedimento costruttivo e a passare ad una vera e propria catena di montaggio per piatti, ottenendo così uno standard qualitativo ineccepibile.

Oggi in linea di massima si può dire che il procedimento costruttivo di un piatto musicale segue il seguente iter: il metallo diviso e pesato in eque parti viene fatto fondere e amalgamare in un altoforno e quindi a rinforzo molecolare viene passato in un laminatoio che lo porta a un unico foglio di spessore costante; viene quindi raccolto in appositi stampi i quali, raffreddati, danno il piatto. Le operazioni successive sono la tempra del metallo e quindi la sua sbucciatura, fino a portarlo allo spessore che lo strumento finito richiede. 

Ancor più semplicemente, alcune manifatture come la svizzera Paiste stampano i loro piatti da fogli di metallo già confezionati.

Le manifatture italiane, invece, raggruppate nella zona di Pistoia in Toscana,  usano ancora oggi il procedimento artigianale di manifattura dei piatti musicali e dei gong, tale e quale sembra sia stato nell’antica Costantinopoli.

Attorno al 1870, in località Ponte Napoleone sorse la prima fabbrica italiana di piatti musicali: altre manifattu­re di questo tipo furono aperte nella stessa zona negli anni successivi, fino a che nel 1930 i vari artigiani decisero di unificarsi.

Alcuni decenni fa, le piccole fonderie decisero di uniformare la lavorazione dei piatti e dei gong: nacque l’Unione Fabbricanti Italiani Piatti che, con la sigla UFIP, da quel momento contraddistinse la produzione nazionale di questi strumenti.

Nonostante l’assetto di “piccola industria” la lavorazione è ancora, presso questi artigiani, qualche cosa di rituale. Gli altiforni industriali non esistono: piccoli crogiuoli  posti in cunicoli areati e ricolmi di carboni ardenti contengono le proverbiali otto parti di rame e due di stagno che, fondendosi, danno luogo all’amalgama del piatto. 

Dopo ore di fuoco, quando i crogiuoli sono ormai incandescenti e l’amalgama allo stato liquido due artigiani con enormi pinze li afferrano e, nel minor tempo possibile, rovesciano il contenuto in formelle di ghisa, ciascuna riproducente al negativo il modello del piatto o del gong desiderato. Essenziale in questa fase è la velocità: lasciar raffreddare solo per alcuni secondi in più l’amalgama significherebbe ottenere una fusione imperfetta e quindi uno strumento sordo e di bassa qualità.

Aperte le formelle, i piatti allo stato grezzo vengono presi con pinze, ricoperti di argilla e ricotti in un altro forno e quindi, una volta portati ad alta temperatura oltre i 500 gradi, gettati nell’acqua fredda: questo procedimento serve a togliere la fragilità vetrosa degli amalgami appena fusi e viene detta tempra.

Si passa quindi alla vera e propria lavorazione del piatto: posto su un tornio, il piatto grezzo viene sbucciato con appositi ferri manovrati a mano; è incredibile come in questa fase del lavoro sia solo la sensibilità della mano a determinare l’uniformità dello spessore del cymbal. Basta qualche decimo di millimetro in più per creare un profondo solco nel piatto e comprometterne il suono.

Dopo una prima abbondante sgrezzatura, il piatto passa alla battitura: questa operazione tende a dare una maggiore compattezza molecolare al metallo e quindi ad aumentarne la durata, la tenuta sonora e la brillantezza. Un’ultima tornitura dà al piatto il suo aspetto di strumento finito.

Mentre nell’antichità i pesi e le forme erano legati alle culture dei luoghi dove gli strumenti venivano impiegati e quindi ciascuna manifattura produceva solo i tipi di piatti necessari alla musica della sua area, oggi, con la vasta popolarità raggiunta da questi strumenti a percussione e con i molteplici impieghi in differenti contesti musicali, tutte le manifatture si vedono obbli­gate a produrre una infinita gamma di pesi, misure e forme, tali da soddisfare i musicisti giapponesi come quelli europei e americani. 

Si può dare comunque uno schema generale su cui la produzione si basa, anche per far luce sulla selva di nomi che oggi vengono affibbiati ai differenti piatti: possiamo sostanzialmente definire tre tipi di strumenti:

1. Piatto da banda extra heavy; sono talvolta richiesti anche da esigenti batteristi in sostituzione degli hi-hat. Strumenti risalenti all’antichità predomina, sono suonati in coppia battendoli con una apposita tecnica l’uno contro l’altro in posizione verticale; due impugnature in cuoio,  servono a sorreggerli e fanno presa su un foro situato al centro sulla cupola dello strumento. 

Fin dai tempi degli assiro-babilonesi questa maniera di suonare i piatti era largamen­te impiegata; inoltre la cultura cinese conosceva già duemila anni or sono la maniera di lavorare il metallo e di fabbricare i piatti musicali. Questi veniva­no costruiti ricavando una impugnatura a pomolo dal centro della cupola del piatto; oggi questo tipo di forma è stato mantenuto nei china cymbal di alcune ditte europee.

In ossequio alla antica lavorazione, i piatti extra heavy vengono lavorati con una battitura molto rada e a grossi bozzi, tali da conferire allo strumento, il cui amalgama è leggermente diverso da quello del piatto sinfonico, la caratteristica brillantezza che ben si impasta con il militaresco suono prodotto dagli strumenti da fanfara (tromba, trombone, ecc.) e oggi con quello degli stru­menti elettrici.

2. Jazz cymbal. Con questo termine ci si riferisce oggi ad un particolare tipo di piatto musicale il cui uso normale è quello di essere percosso con un battente mentre gioca sospeso su un apposito supporto da cui è isolato con dischi di gomma o di feltro che impediscono lo smorzamento del suono. 

Come già dicevamo, il jazz (l’espressione musicale degli afroamericani degli Stati Uniti) contribuì agli inizi del secolo in maniera determinante alla popolarità di questo strumento e alle fortune della già citata famiglia Zildjian. Se agli inizi della storia di questa forma musicale i piatti impiegati dai  batteristi jazz erano strumenti di tipo cinese, importati dal loro paese d’origine, nel rapido giro di un ventennio si affermò l’impiego del piatto turco in tre suoi modelli fondamentali:

a) Ride cymbal, detto in italiano piatto d’accompagnamento, è quello usato per tenere il tempo e creare un sottile gioco di sottofondo.

Dalla misura variabile tra i 40 e i 60 centimetri di diametro, è solitamente di peso consistente (2 chilogrammi e più), tale da permettere di distinguere le scansioni ritmiche su di esso eseguite.

b) Crash e splash cymbal, piatto di dimensioni varianti dai 15 ai 50 centimetri, è di peso notevolmente inferiore al ride (in modo che il colpo lo metta immediatamente in vibrazione), è utilizzato nelle orchestre jazz e moderne per sottolineare passaggi strumentali di particolare volume sonoro e per accentare la tessitura musicale.

c) Hi-hat cymbal; si tratta di una coppia di piatti di pesi differenti (il più pesante viene posto sotto e il più leggero sopra) e di diametro normalmente non superiore ai 40 centimetri, fusi con la stessa lega dei piatti jazz.

Sono manovrati dal hi-hat in modo che si possano chiudere e aprire orizzontalmente, che possano essere percossi insieme (quindi con un notevole volume di suono e un effetto di vibrazione molto particolare), essere percossi chiusi (con un suono metallico privo di risonanze), oppure combinando le tre azioni tra di loro con effetti sonori, timbrici e ritmici di inusitata bellezza e di grande interesse.

Celebri batteristi jazz, soprattutto Jo Jones e Sid Catlett prima e quindi Max Roach e Buddy Rich avevano in repertorio assoli dedicati unicamente alla coppia dei piatti hi-hat.

Da menzionare ancora come in Francia, e talvolta anche in Italia, questi piatti vengano chiamati charleston per la popolarità che ebbero negli anni trenta quando vennero impiegati per l’accompagnamento dell’omonima danza.

3. Piatto sinfonico. Usato per lo più sospeso e raramente in coppia dai batteristi dell’avanguardia e della free music. Si definisce con questo termine un piatto fuso in una ricca lega (talvolta con una minima percentuale, d’argento) simile a quello del jazz cymbal, usato ormai da circa trecento anni nelle grosse formazioni orchestrali che eseguono il repertorio classico, concertistico, operistico e popolare.

Questo strumento può essere usato sia in coppia, con la stessa tecnica esecutiva dei piatti da banda (ricordiamo però che il diametro in questi casi è sempre tra i 40 e i 60 centimetri), oppure sospeso a un supporto e percosso con diversi tipi di battenti. Quest’ultimo tipo di impiego è diventato via via sempre più frequente nel ventesimo secolo grazie allo sviluppo della composi­zione per strumenti a percussione e il loro sempre più frequente impiego nella musica definita “contemporanea “.

Crash ride cymbal: piatto dal suono pieno e ricco di armonici, viene usato sia per tenere il tempo che per effetti sonori; si trova in tre pesi (medium, medium-thin, thin).

Ping cymbal: piatto dal timbro definito, in cui le risonanze della vibrazione non coprono il suono della bacchetta che percuote; si trova in tre pesi (medium, medium-heavy, heavy).

Bounce ride cymbal: è il piatto più importante per il batterista jazz; la sua lavorazione fa si che, a seconda della zona in cui è colpito o dalla forza del colpo inferto, l’esecutore possa agevolmente controllarne il volume sonoro e l’emissione degli armonici; è il piatto classico per accompagnamento; si trova in due pesi (medium e medium-heavy).

Crash cymbal: dal suono pieno e rombante, è adatto per essere percosso al massimo per due volte di seguito; la sua leggerezza infatti gli impedisce di sostenere una battitura continua; si trova in due pesi (thin e medium thin).

Splash cymbal: piccolo piatto dal suono acuto e pieno, adatto a colpi singoli di bacchetta; si trova in un solo peso (thin).

Flat cymbal:  modellato come una lente senza la cupola centrale; il suo suono è molto esile e, anche percosso con differenti intensità, dà sempre lo stesso suono. Si trova in tutti i pesi.

Piatto chiodato: quasi tutti i piatti precedenti possono essere forati lungo la circonferenza e muniti di rivetti che, all’atto della percussione, vibrano, creando un piacevole, costante sottofondo. Elvin Jones è tra coloro che l’hanno adottato.

I crotali moderni sono strumenti simili ai piatti per alcuni aspetti, ma ne differiscono molto per uso e lavorazione. Il nome designa un piccolo piatto di circa 5 o 10 centimetri di diametro, fuso nello stesso amalgama dei piatti sinfonici, ma con un peso tale da dare un suono molto acuto e penetrante, in rapporto al suo diametro. Solitamente i crotali suonati danno note in perfetto accordo con altri strumenti, ma l’impiego nel drum set è il più delle volte solo a suono indeterminato.

Il  piatto cinese non differisce dal piatto turco solo per la forma della cupola, già precedentemente descritta, ma anche per l’andamento della superficie che, a circa 10 centimetri dal bordo rimonta verticalmente, dando così al suono la particolare asprezza che contraddistingue questo strumento. 

Il  modello prodotto dalla Zildjian e dalla UFIP, pur conservando in tutto e per tutto il suono del piatto cinese di duemila anni fa, impiega il bosso centrale a tronco di cono, essendo ormai l’uso di questo piatto legato a generi musicali in cui viene suonato singolarmente montato su un supporto, mentre la Paiste mantiene la forma originale; si trovano anche ottimi piatti cinesi originali d’importazione, ma sono purtroppo di lega leggera per la moderna tecnica batteristica, e quindi sono destinati a rottura.

I piatti sono diventati complemento indispensabile della batteria,  la scelta di almeno tre piatti e’ così concepita:

1. ride cymbal d’accompagnamento da 50 a 55 centimetri di diametro (oppure bounce o ping, o crash ride);

2. un crash cymbal di 45 o 40 centimetri di diametro;

3. una coppia di hi-hat da 36 o 38 centimetri.

Su questo tema di base la creatività del batterista potrà effettuare tutte le variazioni possibili e immaginabili.

 


 

Le Bacchette

 

 

L’uso di questi accessori è di vitale importanza nel mondo della percussione. Parlando di bacchette viene subito in mente il paragone azzeccato con l’ancia degli strumenti a fiato, il bocchino degli ottoni, il plettro e l’arco degli strumenti a corde e così via: sono i punti di contatto tra l’esecutore e lo strumento, i nodi focali attraverso i quali passa l’energia creativa del musicista e per mezzo dei quali lo strumento musicale diventa specie vivente.

Generalmente le bacchette per batteria hanno una loro precisa identità costruttiva: sono fatte di legno di hickory, maple, oak, di legno pregiato, ed hanno una lunghezza ormai standardizzata dai 35 ai 40 centimetri con un diametro variabile da 1,5 a 2,5 centimetri; la caratteristica di questi legni lavorati in queste dimensioni è quella di dare alle bacchette una facilità di presa, una elasticità e una robustezza necessarie in un tipo di attività motoria, come la percussione, in cui la pressione costante delle microvibrazioni sfibra qualunque tipo di materiale.

Al legno, elemento naturale insostituibile (anche se sul mercato internaziona­le si sono viste bacchette in resine sintetiche), molte volte si affianca il nylon, usato da quasi tutti i costruttori per fabbricare punte battenti in alternativa a quelle di legno.

Le vibrazioni tendono ad aprire le bacchette, rendendole così oggetti dal suono opaco e dall’attacco indistinto; il vantaggio del nylon sta in una più lunga durata a cui fa da controaltare una sonorità più brillante ma più povera e artificiale.

Tutte le case produttrici di strumenti a percussione hanno nei loro cataloghi una bella serie di bacchette.

Tutti i produttori numerano ormai le bacchette con sigle che contraddistinguono, nei loro rispettivi codici, diametro, tipo di punta battente, lunghezza; anche in questo caso molte volte le catalogazioni si equivalgono. Per esempio, troverete il modello “7A” in quasi tutti i cataloghi, così pure il modello “CC”, e così via.  

Comunque c’è da tenere anche presente che è abbastanza interessante considerare, nell’acquisto di un paio di bacchette, i differenti tipi di suono che punte di diversa natura producono.

1. Le punte sottili a oliva privilegiano l’attacco del suono, riducendone la risonanza: sono adatte all’accompagnamento sul piatto, ove non si richieda un eccessivo volume di suono e hanno una chiara definizione sulle membrane dei tamburi.

2. Le punte sottili a pallina hanno ancora una definizione dell’attacco molto precisa, ma mettono in risonanza la superficie percossa in misura maggiore delle punte a oliva: hanno uniformità di battuta e possono quindi essere usate in qualsivoglia angolazione; sulle pelli producono un suono rotondo ben definito.

3. Le punte medie o a capsula o a oliva rigonfia richiedono un notevole controllo alla percussione, presentando una più vasta superficie e un maggior peso di battuta: sui piatti fanno risaltare le frequenze medie, mentre sulle pelli producono un suono caldo di volume rilevante.

Le punte grosse a forma di pera rovesciata, di sfera o di grossa oliva sono indicate per l’esclusivo uso sui tamburi, a cui conferiscono la massima ricchezza possibile di armonici; ancor più sono indicate per l’uso con il tamburo rullante, per il quale originariamente erano nate.

La lunghezza è un altro aspetto importante da prendere in considerazione: sarà opportuno che un musicista dalle mani piccole usi bacchette non eccessivamente lunghe, mentre il batterista dalle dita affusolate necessiterà di oggetti percussivi più lunghi; la bacchetta è quasi un prolungamento del corpo dell’esecutore, e pertanto dovrà rispettarne le caratteristiche fisiche. 

Un altro aspetto da non trascurare è il collo della bacchetta: non è assolutamente vero, come comunemente si crede, che una bacchetta dal collo sottile si possa rompere con più facilità: il collo è lavorato, abitualmente, in modo tale da bilanciare il corpo della bacchetta e conferirgli l’elasticità che gli è necessa­ria.

Ecco alcune regole fondamentali da osservare nella scelta di un paio di bacchette:

1. Il primo requisito per una bacchetta è quello di essere perfettamente diritta: problemi incredibili a livello esecutivo sono dovuti molte volte a una bacchetta stortatasi per difetto di stagionatura del legno o per altri fattori. Far rotolare le bacchette su una superficie perfettamente piana controllando il perfetto allineamento.

2. L’esecuzione di figure quali il rullo può essere enormemente facilitata da una elasticità e da un grado di durezza uguale nelle due bacchette, e dallo stesso grado di stagionatura. Il problema che molte volte si trova a dover affrontare è quello di un diverso suono alla percussione della bacchetta impugnata dalla mano sinistra nei confronti della destra. Molte volte è un reale problema di mobilità (la destra, si sa, è la mano più sviluppata) ma, altrettante volte, la differenza di suono è da ricercarsi nei requisiti di: elasticità, durezza e stagionatura diversi. 

Percuotere con le bacchette, rette ovviamente dalla stessa mano, una superficie afona e rigida (il banco del negozio o il pavimento vanno benissimo): quando avrete trovato due bacchette che suo­nano alla stessa maniera e rimbalzano alla stessa altezza, avrete trovato le bacchette adatte.

3. L’elasticità, e quindi il rimbalzo, è, un fattore importantissimo; da questo dipendono anche, in parte, la velocità di esecuzione, la possibilità di suonare senza stancarsi e così via.

I legni pregiati e stagionati di cui solitamente i fabbricanti di bacchette si servono, sono già di per sé. notevolmente elastici: le bacchette in oak giapponese che, tra l’altro, hanno anche l’enorme vantaggio di una flessibilità tale da permettere, con una opportuna pressione delle mani, di riportarle a un allineamento perfetto.

L’hickory, leggermente più fragile ha, comunque, il vantaggio di una indiscussa superiore rimbalzabilità.

Evitare, altresì, a meno di necessità particolari, i legni pesanti come l’ebano: questo tipo di bacchette somma a un peso maggiore, che ne condiziona il controllo, una rigidità generale che mal si adatta all’uso batteristico (è invece utile talvolta nella musica per tamburo rullante).

Di modelli di bacchette in materiale sintetico: ne sono stati prodotti diversi tipi, per lo più caduti nel nulla. Al vantaggio della indistruttibilità si affiancano molti difetti, che fin dal primo apparire ne hanno limitato la diffusione.

Una leggera passatina con la carta vetro sul manico della bacchetta, comunemente laccata con una apposita vernice trasparente, riporterà il legno alla sua porosità naturale eliminando il problema della scivolosità, così comune in questo accessorio percussivo.

Un altro interessante attrezzo percussivo, nato con il jazz e ormai entrato nell’uso comune dei batteristi, è la “spazzola” (dall’inglese brush) un battente formato da un ventaglio di fili d’acciaio applicati ad una impugnatura.

Benché di raro impiego nell’assordante musica commerciale, le spazzole danno al bat­terista la possibilità di produrre suoni, atmosfere e colori che mai potrebbero essere realizzati con l’uso delle bacchette.

La tecnica esecutiva, con questi battenti, si basa sulla possibilità di ricavare un corposo effetto sonoro strisciando le spazzole sui tamburi: quello prodotto è evidentemente un suono breve, ma con un suo preciso fascino. La eccessiva flessibilità di questo accessorio percussivo ne limita il rimbalzo richiedendo quindi all’esecutore la messa a punto di una sua propria tecnica che sfrutta soprattutto il movimento dei polsi e i colpi singoli ancorché, con un attento studio, si possa far rimbalzare anche la spazzola.

Le spazzole esistono in due modelli: nel primo tipo di modello i fili d’acciaio sono fissati al manico, mentre nel secondo il ventaglio di fili d’acciaio è retraibile nel manico.

Si ringrazia l'autore: Andrea Centazzo
(La batteria, stili protagonisti e tecniche - 1982, Muzzio Editore).


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